Intervista pubblicata in M.A.C. Movimento Arte Concreta di Giorgio Maffei,
Edizioni Sylvestre Bonnard Milano, 2004. Cortesia di Paola Maffei.
Intervista di Giorgio Maffei
Nel 2004, Giorgio Maffei (Torino, 1948-2016), curatore e collezionista di “libri d’artista”, in occasione della pubblicazione del suo libro M.A.C. Movimento Arte Concreta, Opera Editoriale, ha intervistato Gillo Dorfles (Trieste, 1910-2018) uno dei fondatori, insieme a Bruno Munari, Atanasio Soldati, Ettore Sottsass e Gianni Monnet, del M.A.C.
Il M.A.C. fu fondato a Milano nel 1948 con il fine di dare impulso all’arte non figurativa, ed in particolare ad un tipo di astrattismo libero da ogni imitazione e riferimento con il mondo esterno, di orientamento prevalentemente geometrico.
Il M.A.C. esordì con una mostra collettiva tenuta alla Libreria Salto di Milano nel dicembre del 1948 e negli anni seguenti si struttura con una rete organizzativa diffusa in varie città, oltre Milano, come Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli e comprendente non solo pittori o scultori, ma anche architetti, industrial designers, grafici. Quest’ultima caratteristica del MAC può essere messa in relazione con la molteplicità di interessi di due figure come quelle di Dorfles e di Munari. Successivamente alla sua fondazione aderirono al movimento, tra gli altri, Antonio Franchini, Gianni Bertini, Ferdinando Chevrier, Franz Furrer, Augusto Garau, Mario Nigro, Ideo Pantaleoni, Galliano Mazzon, Plinio Mesciulam, Luigi Veronesi, Renato Barisani referente e coordinatore per Napoli fino al 1958, Vittorio Ugolini, Luiso Sturla segretario per la Liguria fino al 1957. Fra gli architetti Attilio Mariani, Carlo Perogalli, Tito Varisco, Roberto Menghi, Marco Zanuso, Mario Ravegnani, Carlo Paccagnini, Vittoriano Viganò. Ebbero rapporti con il MAC anche i giovani pittori romani Accardi, Dorazio, Perilli, che daranno vita al gruppo Forma 1. Il MAC si sciolse nel 1958.
Il M.A.C., anche dal punto di vista delle sue espressioni editoriali, ha una caratteristica straordinaria: aver concepito una rivista che, a differenza di tutto quanto era successo sino a quel momento, e fatta essenzialmente dagli artisti. Pongo impropriamente questa domanda a lei che ha vissuto una “doppia vita” di artista e di studioso. Gli altri però erano solo artisti e hanno sentito da subito il bisogno di comunicare le idee e i fatti, oltre che con la propria opera pittorica, con uno strumento informativo costruito “dalla base”, saltando l’intermediazione del critico.
Effettivamente il momento era particolare e l’attività editoriale, anche quella, e stata in un certo senso improvvisata. Però improvvisata fino ad un certo punto perché Monnet era un architetto, oltretutto laureato a Torino e quindi con una mentalità torinese. Per almeno tre quarti e merito di Monnet per tutto quello che è avvenuto dal punto di vista editoriale.
A questo si aggiunge il fatto che Munari, anche fui, più che pittore era un designer; per cui molte delle invenzioni editoriali nel senso grafico compositivo, sono state anche di Munari. Per quello che poi riguarda il mio intervento in quella che possiamo chiamare “casa editrice” (anche se questo non era), e quello di aver scritto dei brani, dei testi giustificativi e critici che venivano poi inseriti nei bollettini perché prima di arrivare ad una vera rivista si e partiti da questi bollettini. Credo che una delle prime cose da segnalare sia proprio quella dei bollettini, ossia questi piccolissimi opuscoli fatti già con l’idea che fossero non soltanto dei depliant da buttare via. Credo che questa sia stata proprio un’invenzione di Monnet, perché nell’ambito delle poche paginette o nel foglio era già contenuta in nuce quella che poi avrebbe potuto diventare una vera rivista.
Quale è stato il ruolo dei Salto e della loro galleria-libreria nello sviluppo di questa storia artistica. Si limitavano a fare “gli affittacamere” del luogo espositivo e i propiziatori dei materiali editoriali, oppure avevano un ruolo maggiore?
Dal punto di vista economico le operazioni si reggevano proprio con le cinquanta lire che ognuno sborsava.
E si reggevano anche perché avevamo trovato in Salto, il libraio, una persona di straordinaria apertura che aveva permesso di servirsi della sua sigla come casa editrice. Sarebbe difficile trovare oggi un libraio disposto a questo senza alcun tornaconto.
Quindi c’erano tre situazioni: un libraio malta aperto come Salto, un architetto editare come Monnet e un’artista inventare come Munari. Soldati a questo punto aveva unicamente la funzione di artista che esponeva e partecipava alle riunioni. Che ci fosse un’idea di sviluppi futuri, ne! senso di diventare una vera casa editrice, questo non so se si possa dire. Certo la speranza era anche quella: arrivare a tare una vera rivista e i quattro fascicoli dei Documenti d’Arte d’Oggi, sono effettivamente stati una rivista. Anche quelli però, essendo stati fatti in gran parte con mezzi propri e cioè in parte a mano, in parte con litografie di prezzo assolutamente irrilevante, non potevano essere una vera rivista perché avevano dei ricavi minimi. Non so se erano fatti in cento copie o poco più…
Questa è un’altra curiosità che non viene mai fuori.
Io non credo superassero le cento copie. Anche perché era fatta a mano e cento copie erano già tante.
Altro aspetto di questa storia editoriale e quello delle cartelle di grafica, straordinarie per qualità artistica perché straordinari erano gli artisti, ma estremamente povere per stampa e tipografia . Questo era dovuto a problemi contingenti di economia di mezzi o c’era anche una volontà di produrre un oggetto artistico di largo consumo, a basso costo, una specie di democratizzazione dell’oggetto d’arte?
Io credo che alla base di questa situazione ci sia stata una motivazione economica. Fare cioè qualcosa che non venisse a pesare sui quattro componenti del gruppo, però anche la ricerca, anche qui soprattutto da parte di Monnet di provare sistemi tipografici diversi. Mi ricordo che lui cercava carte speciali, alle volte raffinate alle volte rozze, carte trasparenti, sistemi compositivi diversi. Nei quattro Documenti d’Arte d’Oggi c’erano da un lato fogli stampati, nel modo più elementare possibile, a cui poi si aggiungevano fogli malta complessi come composizione con tentativi innovativi, per esempio le poesie di Tullier e di altri poeti come Sanguineti, Balestrini, Erba ecc.
In questi fascicoli sono stati stampati per la prima volta i testi di quelli che dovevano diventare il “Gruppo 63” e “I Novissimi” e noi già nel 1948 pubblicavamo appunto Sanguineti, Pagliarani, Balestrini, Porta, ecc. La pubblicazione di queste poesie, con una tipologia di nuova concezione che in un certo senso preludeva certe forme di poesia concreta e visiva sviluppate proprio in quegli anni, mi sembra malta importante.
Per esempio il “Gruppo Settanta” di Firenze, cioè Miccini e Pignotti, che avevano fatto quelle pubblicazioni di poesia visiva, vengono ampiamente dopo e molte poesie concrete tedesche come quelle di Gomringer o brasiliane come quelle del gruppo “Noigandres ” sono o contemporanee o di pochissimo posteriori.
Direi che l’inventiva tipografica nella pubblicazione delle poesie sui bollettini, mi sembra altra cosa da sottolineare, come mi sembrano importanti certi accorgimenti tipografici come il “quadratino ” messo in fondo alla pagina per sottolineare la fine di un testo, che e stata un’invenzione di Monnet, totalmente inedita. Altra cosa che mi pare interessante sano le pagine dedicate a Munari come suoi “libri illeggibili”.
L’inserzione di quelle che erano opere autonome tra le pagine stampate, permettevano una diffusione maggiore di quella che era un’opera unica fatta dall’artista.
A proposito di Munari. Tutti quanti hanno scritto sulle vicende del M.A.C. sano sempre stati un po’ vaghi a proposito del “bollettino n.10”, quello fatto con le pagine trasparenti, con il manifesto del “macchinismo”, della “arte totale”, del “disintegrismo” e della “arte organica” . Fino a che punto erano, mi passi la parola, “seri”?
Ho già detto altre volte (sono l’unico a dirlo, ma credo di poterlo dire) che questi “manifesti dell’arte” sano una presa in giro, assolutamente. Munari li ha fatti espressamente per prendere in giro la seriosità dei vari manifesti nucleari, spaziali ecc. Non per inimicizia ma proprio per il suo spirito un po’ goliardico e irriverente. Lui ha fatto personalmente i manifesti come presa in giro. Poi naturalmente, come sempre succede, c’è chi li ha presi un po’ troppo sul serio e ha costruito sugli stessi delle ipotesi che non hanno nessuna verosimiglianza.
Del resto il M.A.C. e l’unico movimento strutturato che non ha prodotto un vero manifesto. Continuiamo a considerare “Manifesto del M.A.C.” quello che lei scrisse come scritto occasionale nel 1951 per la mostra collettiva della galleria Bompiani…
Anche a questo proposito posso ribadire di non aver scritto un manifesto: quando dicevo ad esempio che l’indirizzo e il target del M.A.C erano “forme in movimento”, si trattava di una delle tante affermazioni per i bollettini, ma io non ho mai voluta fare un manifesto, tanto più che poi quello che dipingevo era proprio il contrario di quello che facevano gli altri. Anche il nome “arte concreta” era una definizione che andava bene, perché si riallacciava agli amici svizzeri con i quali allora i rapporti erano molto stretti.
Monnet aveva una moglie ticinese, per cui i nostri rapporti con la Svizzera, proprio attraverso Monnet, furono precocissimi . Appena “liberati”, quando ancora la gente no si muoveva da Milano, noi andavamo a Lugano costantemente, anche a Zurigo, a prendere contatti con Max Bill, con Lohse, ecc. però una vera parentela con la “Konkrete Kunst” svizzera non esisteva.
Questo lavoro sulle pubblicazioni del M.A.C. e anche l’occasione per compilare degli apparati che raccolgano parte di quanto e successo editorialmente nel periodo, per ricostruire il clima, lo sfondo su cui il Movimento operò.
Quali siano stati i rapporti con gli altri artisti, quali le altre riviste i testi che in qualche modo incisero sulle vostre idee, quali furono gli strumenti di comunicazioni che si occuparono di voi e che modificarono il vostro modo di dipingere, di lavorare, di scrivere e di essere organizzati come gruppo?
Direi che l’unico allargamento, dal punto di vista sempre editoriale, è stato quello delle cartelle. Si trattava in fondo della prima manifestazione in cui queste pubblicazioni (ed erano delle vere “pubblicazioni”), con la sigla di Salto, di valore abbastanza elevato parteciparono “Forma 1” di Roma, Sottsass, Fontana e questo avrebbe dovuto costituire l’inizio di una casa editrice che poi non ha avuto luogo.
Mentre altre formazioni contemporanee erano ad esempio quella rivista fatta da Ballocco, “AZ”, che ha avuto un decorso parallelo. L’unica che si e occupata a fondo del M.A.C. e stata la francese “Art d’aujourd’hui ” che ha avuto due numeri con interventi miei, di André Bloc e di altri che si sono occupati dell’editoria del M.A.C.
Perché poi, da parte della stampa italiana, la cecità era allora totale. Non dimentichiamo che le mostre del M.A.C. per dei giornali come il Corriere della Sera, praticamente non esistevano. Tutto molto diverso da quanto avviene oggi in cui qualsiasi ragazzino di vent’anni che si mette a scrivere di critica d’arte ha a disposizione quotidiani, settimanali e riviste d’arte, in gran parte mediocri però numerose. L’unica rivista in cui c’era qualche possibilità di intervento era quella di Ragghianti, “Sele Arte”, brutta rivista generica che ha ospitato anche arte contemporanea e poi a parte questa c’era “La Critica” a Firenze, “Arti Visive” di Villa e Colla, “Numero” a Firenze anni dopo.
I rapporti con gli altri gruppi: alla fine della vostra storia molti documenti dei ” nucleari”, degli “spaziali”, di Azimuth di Manzoni e Castellani, in generale della generazione successiva, confluiscono anche all’interno dei vostri documenti editoriali…
Sia i “nucleari” che gli “spaziali ” ci tenevano ad avere la loro autonomia, era anche giusto perché erano indirizzi diversi.
Quello che invece secondo me è stata l’unica vera continuazione del movimento, non solo dal punto di vista artistico figurativo ma anche tipografico, è “Azimuth ” di Castellani e Manzoni. La rivista, di cui ci sono solo due numeri, è stata fatta in sintonia con i nostri bollettini, io sono stato invitato a scrivere sin dal primo numero un editoriale, non solo ma loro hanno pubblicato dei miei lavori. Il che significa che hanno riconosciuto di essere in fondo derivati da quell’idea, dal M.A.C., soprattutto Castellani e Bonalumi, anche se non e mai stato dichiarato.
Ci tenevano alla loro indipendenza, ma non c’è dubbio che si sono rifatti al M.A.C.
Sono stato, se non il primo, almeno uno dei primi a presentare una mostra di Castellani alla Galleria L’Ariete e Bonalumi forse da Pater. Manzoni era un po’ marginale rispetto a loro, ha fatto parte della pubblicazione, però la sua opera si distaccava molto, aveva una sua visione. Anche con Manzoni avevamo dei rapporti positivi. lnvece con i “nucleari”, allora era meno intima la continuità. Con Fontana il rapporto era di grande amicizia oltre che di ammirazione.
Poi c’è il problema del rapporto con le filiali, torinesi e napoletane. Con Torino i rapporti erano molto stretti, io essendo stato a Torino durante il servizio militare, ero molto amico di Galvano, della Carol Rama, di Parisot. Per cui con i torinesi avevamo uno scambio continuo, credo che il gruppo torinese sia stato una immediata continuazione del M.A.C. milanese. I Quattro Soli di Parisot hanno guardato tipograficamente a noi, erano abbastanza vicini al M.A.C. lnvece per Napoli anche lì l’incontro è stato abbastanza precoce, soprattutto con De Fusco, che era architetto, e con Barisani quello che ha portato più in là le posizioni del M.A.C. anche attraverso alcune sue pubblicazioni.